È uno dei fenomeni che più contraddistingue la letteratura italiana quello della poesia in dialetto. Come un torrente sotterraneo le lingue popolari sono sempre state presenti, spesso costituendo un dilemma per molti scrittori. Se, solo per fare due esempi, già Dante nel De vulgari eloquentia tentava un sommario elenco delle parlate regionali italiane, e ancora un’opera come l’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo è scritta in una lingua a forti tinte “padane”, dall’altro lato la vicenda dell’italiano letterario si sovrappone al tentativo di nascondere le lingue locali a favore di una lingua colta e letteraria unitaria. Così non stupisce se Ludovico Ariosto riscrive fino a tre volte il suo Orlando furioso per farlo coincidere con la norma “toscana”, e se secoli dopo Alessandro Manzoni ritiene “scritta male” la prima stesura del suo romanzo, e sceglie di «risciacquare i panni in Arno» prima di rimettere mano ai suoi Promessi sposi.
Con la significativa eccezione ottocentesca di Giuseppe Gioacchino Belli e di Carlo Porta, sarà il Novecento, specialmente dopo il 1945, a riscoprire il valore della poesia e dei poeti in dialetto, comprendendo la grandezza di figure dimenticate e prestando attenzione ai tanti poeti che sceglievano gli idiomi locali per la scrittura. Poesia Festival ha spesso dedicato attenzione ai poeti in dialetto, ospitando negli anni figure di riferimento come Franca Grisoni e Fabio Franzin, presentando antologie sul tema come l’Italia a pezzi o invitando a intervenire Franco Brevini, uno dei principali osservatori del fenomeno – senza dimenticare che del comitato scientifico del festival fa parte Emilio Rentocchini, uno dei principali poeti in dialetto di oggi.
Per questa undicesima edizione, Poesia Festival ha scelto di affidare a uno dei principali autori in dialetto la lezione magistrale durante la serata inaugurale. Sarà infatti Franco Loi il poeta protagonista la sera di giovedì 24 settembre presso il Teatro Ermanno Fabbri di Vignola.
Nato a Genova nel 1930 ma milanese d’adozione, ha scritto libri indimenticabili di versi proprio nel dialetto meneghino, pur riadattandolo in modo del tutto personale, «come si è andato memorizzando dalle esperienze di lavoro, di attività politiche e di svago»: così lo stesso Loi ha voluto precisare in una nota introduttiva a Stròlegh, il suo primo libro importante del 1975. Un «uso della lingua fortemente inventivo ed esuberante, ad ampia escursione espressionistica» è, secondo la definizione di Roberto Galaverni, quello di Loi, poeta che della sua Milano ha attraversato la storia degli ultimi decenni, esperienza raccolta alcuni anni fa in bel libro intervista dal titolo Da bambino il cielo (scheda del libro). Dalla Milano del Dopoguerra che attrae masse di persone da ogni angolo d’Italia con la speranza di un lavoro e di un’esistenza migliore, passando per la Milano del boom economico, del Sessantotto, degli anni di piombo, fino alla metropoli moderna dove sopravvivono scampoli di un mondo che non c’è più. Ma anche la Milano fucina di pensiero e letteratura di Vittorini, Sereni e Fortini e quella delle passioni, della politica come impegno totale del tifo milanista.
«Avevo il milanese dentro di me molto più di quanto pensassi» racconta Franco Loi a proposito dei suoi esordi di poeta e della “vocazione” per il milanese come lingua della poesia. Un percorso che inizia da questa prima illuminazione e continua fino ad oggi, con una produzione in versi inesausta e che segna uno dei percorsi poetici più interessanti del Secondo Novecento.